Biancaneve Horror (di Alba Nicastri)

C’era una volta, tanti e tanti anni fa, in un castello lontano lontano, una giovane fanciulla, dalla pelle diafana e i capelli corvini.

 

Nacque durante una notte di luna nuova, il castello avvolto dalle tenebre. Banchi di nebbia lo rendevano invisibile a chiunque fosse oltre le sue mura. Le urla della Regina partoriente erano l’unica cosa udibile nei lunghi corridoi che conducevano alla sua stanza. Quella notte, una bambina venne alla luce.

 

Giorni di festa in tutto il Regno fecero seguito alla sua nascita. Ella era la primogenita, figlia del Re e della Regina, che per anni attesero il suo arrivo.

Doni di ogni genere furono portati alla sua culla. Ricchi banchetti furono allestiti, litri di sidro versati e menestrelli da ogni dove giunsero al castello, per scrivere canzoni che la celebrassero.

 

Ben presto, però, la salute precaria della neonata spinse i Regnanti a interrompere i festeggiamenti.

Era evidente la difficoltà con cui la piccola si alimentava.

Ella rifiutava ogni goccia di latte donatole. Perse il tono e il vigore delle prime ore e in pochi giorni cambiò aspetto, tanto da destare preoccupazione in chiunque la vedesse. Le sue gote, dapprima ben paffute, presto divennero come scavate, rendendole più grandi e violacee le orbite. La sua pelle, dapprima rosea, presto divenne sottile come fili di una ragnatela appena tessuta e bianca come la fredda neve che aveva cominciato a depositarsi sulle guglie del castello. I servi e gli abitanti dei villaggi attorno cominciarono per questo a chiamarla Biancaneve.

 

Furono portate a corte tutte le balie del Regno, ma una dopo l’altra fecero ritorno a casa. La piccola si attaccava con voracità ai loro seni gonfi, ma senza riuscire a suggerne il latte grasso. La forza con cui le sue piccole labbra si serravano attorno a quei capezzoli turgidi, però, era tale, da causarne il sanguinamento. Gocce di sangue caldo e abbondante le impiastricciavano allora il visino e tingevano di rosso vermiglio i candidi vestitini di seta, ricamati nei mesi che avevano preceduto la sua nascita. In quei momenti, e solo in quelli, un timido sorriso pareva stamparsi sul suo volto minuto, incurante delle urla strazianti di quelle donne, la loro femminilità martoriata.

 

Quando anche le balie dei Regni vicini furono rimandate alle proprie dimore, fu la volta della Regina, che dovette provare ad allattare ella stessa la creatura.

Una sera fece portare la bambina nella sua stanza. Una giovane servetta la aiutò a sistemarla sul suo grembo, avvicinandola al seno, poi le sistemò la camiciola da notte, sprimacciò i cuscini dietro la sua schiena e ravvivate le braci nel camino, tornò al pianterreno.

Il mattino seguente, come consuetudine, entrò nuovamente nella camera da letto per svegliare la sua Signora e servirle una ricca colazione a base di pasticcini appena sfornati e frutta appena colta. Quella volta però, si trovò di fronte uno spettacolo agghiacciante: madre e figlia si trovavano supine su lenzuola completamente intrise di sangue. La bambina sembrava dormire profondamente, come chi, dopo un lauto pasto, si abbandona placido alla digestione. Per la Regina, invece, che giaceva immobile e fredda nel letto, non v’era più nulla che si potesse fare. Ipotizzarono si fosse addormentata, stremata dal dolore causatole da quella suzione vigorosa, per poi dissanguarsi lentamente durante la notte.

 

Nessuno riuscì mai a descrivere la sofferenza del Re, ora vedovo, quando apprese la funesta notizia. Ordinò che fosse fatto voto di silenzio in tutto il Regno e per sette giorni l’unica voce che rimbombò sulla pietra fredda delle stanze del palazzo, fu quella di Biancaneve, che era capace di piangere ininterrottamente per ore, e per altrettanto tempo era capace di ridere. Il Re pregava ormai che Dio la riunisse alla madre, alleviando le pene dell’infante e le sue, che amandola immensamente non poteva sopportare di vederla patire. Ma non accadde mai. Capitava che ella non mangiasse per giorni, ma la sua anima non abbandonò mai quel corpicino. Al contrario, seppur in modo esile, la piccola continuava a crescere e iniziò a mostrare una spiccata intelligenza, non comune tra le sue pari.

 

A pochi anni era capace di riconoscere qualunque tipo di creatura dei boschi e a volte un suo fischiettio bastava ad attrarre qualche tordo o passerotto, che giungeva svolazzando così in fretta da non frenare in tempo e schiantarsi contro le vetrate della sua stanza. Quando succedeva, con vivace curiosità si precipitava a recuperarne i fragili resti per studiarli con dedizione. Come petali di margherite ne staccava le piume, osservandole rapita. Più volte, chi la accudiva, era accorso per evitare che mangiasse quelle carni crude, quando di tanto in tanto veniva trovata con la bestiola tra i dentini da latte, come per saggiarne la consistenza.

Preoccupato dalle stranezze della figlia e convinto che fossero dovute alla mancanza di una figura materna nella sua vita, il Re decise che era giunto il momento di trovare una nuova moglie.

 

La nuova Regina e matrigna di Biancaneve constatò presto come le voci che giravano attorno al castello e alla principessa fossero vere. Ovunque, infatti, si sentivano storie sulla figlia del Re, i suoi capricci e le sue bizzarre ossessioni. Nel vederla poté però ammirarne anche la bellezza, il corpo esile e aggraziato, la carnagione pallida e fredda come il cielo di un mattino d’inverno e i capelli neri tenuti raccolti da un cerchietto rosso che richiamava il colore delle sue labbra sottili.

 

Desiderosa di compiacere il marito e osservando la preoccupazione che questi nutriva per la figlia, tentò per mesi di parlare con la giovane Biancaneve: le si rivolse come amica prima, poi come madre e come educatrice, ma nulla riusciva a mutare il suo spirito e a mitigarne i difetti. Le regalò perfino i suoi gioielli e abiti più belli, ma una volta, lei, rimiratasi con questi addosso nel grande Specchio della matrigna, lo scaraventò a terra e ne portò via con sé una scheggia, sghignazzando.

 

Un giorno, dopo averla ritrovata in una fattoria giù al villaggio intenta a mozzare la testa alle oche decise di farla rinchiudere in una delle torri del castello.

Al sessantatreesimo giorno di prigionia, i nervi di Biancaneve cedettero: cominciò a urlare a squarciagola e si mise a correre impazzita da una parte all’altra della stanza. Appena le guardie accorsero per sedarla, con un balzo ella si lanciò sui loro corpi e staccatine dei morsi nei punti lasciati esposti dalle armature, fuggì via.

Attraversò i lunghi corridoi, uscì per le strade del villaggio, passò oltre le mura e in poco tempo raggiunse la foresta. Camminò per giorni, calpestando la terra umida ricoperta di foglie e rami spezzati. Sembrava non sentire la fatica e la si poteva udire cantare tutto il tempo.

 

Un giorno, mentre si trovava accovacciata ad osservare con interesse un grandissimo esemplare di Amanita Falloide, sentì dei passi. Distratta, si tirò su e riprese a camminare nella direzione da cui proveniva quel crepitio di foglie, quando vide a pochi metri da lei la sagoma di un uomo. Era alto e robusto e portava sulla spalla un fucile che puntava verso un punto in direzione opposta alla sua. Senza lasciare che questi la vedesse e reagisse, gli si fiondò allora addosso e tirata fuori la scheggia di specchio che teneva ancora con sé, gliela conficcò in un punto del collo. Il cacciatore, sorpreso, riuscì appena a voltarsi per guardare negli occhi il suo assassino, poi Biancaneve, con un rapido movimento del polso, ruotò lo specchio e lo tirò velocemente fuori, lasciando che il sangue fluisse via copioso a fiotti. In pochi istanti il cacciatore si trovò accasciato a terra, senza vita. A quel punto, Biancaneve lo girò supino e scopertogli il torace, aiutandosi con la scheggia, le lunghe unghie affilate e i suoi stessi denti, gli strappò le carni fino alla gabbia toracica; poi, facendosi largo tra le coste, infilò una mano fino al cuore ormai fermo, lo afferrò saldamente e con un rapido gesto lo strappò via dal suo corpo. Lo rimirò incantata, lucente e intriso di sangue, poi lo avvicinò alla bocca e prese a mangiarlo avidamente, come fosse la cosa più prelibata in cui aveva affondato i suoi denti.

Rifocillata, lasciò lì il corpo sventrato del cacciatore e riprese il suo cammino all’interno della foresta oscura, i cui alberi erano talmente alti e frondosi da non lasciare passare un singolo raggio di sole.

 

Camminò per diversi giorni, prima che giungesse ad una piccola radura, al centro della quale si trovava una costruzione solitaria, protetta da una recinzione in ferro battuto.

Si avvicinò per osservarla meglio, incuriosita. Tentò di aprire il cancello, aspettandosi che fosse chiuso e invece, senza alcuna resistenza, con un cigolio questo cedette.

Attraversò a piccoli passi il giardino antistante, guardandosi attorno. Osservò il piccolo edificio dall’esterno: era costruito interamente in marmo bianco, non era molto grande e aveva la forma di un cubo. In alto, sopra alla porta, si trovava un’incisione, che non riuscì a leggere, e sul tetto era posta una grande croce, anch’essa in ferro battuto. Due piccole finestre si trovavano ai lati dell’incisione, ma erano troppo in alto affinché riuscisse a guardarci attraverso.

 

Decise di entrare. Anche stavolta, si aspettava di trovare la porta chiusa e anche stavolta rimase sorpresa nel constatare che con una certa pressione questa ruotava sui cardini senza alcun ostacolo.

All’interno, l’ambiente era illuminato da tre candelabri agganciati alle pareti e da sette lumini, ognuno posto sopra a quelle che ad uno sguardo più attento sembravano bare. Sette bare bianche, sulle quali erano state apposte sette targhette che recavano i nomi di coloro che custodivano. Si avvicinò e lesse ad alta voce: Dotto, Eolo, Mammolo, Gongolo, Pisolo, Brontolo e Cucciolo. “Che strani nomi”, pensò fissando l’ultima targhetta, quando una mano le si posò sulle spalle, gelandola. Si voltò lentamente e si trovò davanti sette bambini.

Sette bambini dalla pelle bluastra, così emaciati da poter riconoscere le singole ossa dei loro piccoli scheletri.

 

Li osservò uno per uno. Le loro testoline erano schiacciate sulla nuca, lasciando intravedere grovigli di vermi che avevano sostituito gli organi all’interno. Fu allora che Biancaneve capì. Persino a palazzo era giunta notizia di sette bambini, che avventuratisi nella miniera in un pomeriggio di gioco, vi erano rimasti intrappolati quando uno dei tunnel era crollato.

La vista di quei corpicini e la loro storia commosse Biancaneve, che in quel momento decise che sarebbe rimasta lì e si sarebbe presa cura di loro.

Passavano giorni interi a giocare insieme e alla sera lei raccontava loro le favole che a sua volta aveva udito da bambina.

 

Nel frattempo, il Re, disperato, aveva ordinato che la figlia fosse ritrovata e aveva promesso enormi ricchezze in compenso per chiunque gliela avesse riportata.

Morsa dai sensi di colpa per essere stata lei a rinchiuderla nella torre, la matrigna decise che avrebbe ella stessa cercato di riportare a casa la figliastra. Così un giorno partì, portando con sé un cesto di mele come provvista per il viaggio. Camminò e camminò, finché non udì un canto dalla melodia raccapricciante in cui riconobbe la voce di Biancaneve. Gridò allora il suo nome, più e più volte, ma questa pareva non sentirla. Continuò a camminare, cercando di raggiungerla, ma giunta in prossimità della radura, inciampò su delle radici sporgenti e cadde in terra, rovesciando il cestino. Tentò di rialzarsi, ma qualcosa glielo impedì. Ora non sentiva più il canto di Biancaneve, ma risate gioiose di bambini. Voltò il capo e ne vide le gambette, mentre queste si avvicinavano a calpestarla. Due di loro la fissarono negli occhi e chinatisi su di lei, le avvolsero le manine ossute e fredde intorno al collo, e le strinsero in una morsa mortale.

Poi, sempre ridendo, tornarono tutti da Biancaneve, portando in dono alla nuova mamma le mele cadute dal cesto. Lei riprese a cantare e li abbracciò e baciò tutti.

 

Qualche tempo dopo, un altro ospite si avventurò nella foresta.

Il Principe di un Regno lontano, infatti, appreso della ricompensa in palio per chiunque avesse trovato la giovane Principessa fuggita, decise di cercarla e salito in sella al suo cavallo bianco, partì.

Questa volta fu Biancaneve stessa a palesarsi al Principe, che vedendola esultò al pensiero delle canzoni che avrebbero scritto su di lui e la sua impresa riuscita. Smontò da cavallo e baciandole la mano, si presentò. Vide gli abiti logori di lei, incrostati di sporco e sangue ossidato, ma guardandola in viso pensò che fosse ancora più bella di come l’aveva immaginata. Lei lo prese per mano e lo accompagnò verso quella che in quei mesi era diventata la sua nuova casa. Cominciò a canticchiare, come faceva sempre e tanto bastò per far capire al Principe, stupito, di essersi innamorato.

 

Lei lo fece sedere su un ciocco di legno nel cortile e portatagli una scodella piena di frutta, lo invitò a rifocillarsi per riprendersi dal lungo viaggio.

Il Principe, che effettivamente non cacciava da giorni, spazzolò via tutto il cibo. Passarono pochi minuti, quando sentì le fauci diventare sempre più asciutte, la gola gonfiarsi e tutto il suo corpo scosso da crampi e tremori. Perse l’equilibrio e un attimo prima di perdere i sensi, vide Biancaneve buttare via resti del cibo che gli aveva dato, tra cui riconobbe le teste di alcuni funghi velenosi che aveva già visto tra la vegetazione della foresta. Tentò di gridare, di chiamare a sé Biancaneve, ma questa si limitò ad osservarlo cantando, mentre egli esalava l’ultimo respiro.

 

Biancaneve, a quel punto, richiamò a sé i suoi bambini e permise loro di giocare col corpo del Principe. Questi lo smembrarono e coi suoi organi inventarono giochi che li tennero occupati per giorni.

Poi buttarono via i pezzi e ripresero a vivere normalmente con Biancaneve, che continuò a prendersi cura di loro per l’eternità.

 

Nessuno venne più a cercarli, lì nella foresta, e loro vissero per sempre maledetti e contenti.

 

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